viernes, 12 de abril de 2013



THE CURSE OF BIN LADEN: DEAD 22 OF 25 MARINES WHO KILLED HIM


Ben 22 25 of the Marines who killed Osama Bin Laden in a raid in Pakistan are mysterious deaths. Just coincidence? Impossible not to connect this with the mysteries that still surround the figure of the "Sheikh of terror."    
April 1st.

When the '11 September 2001 two airliners crashed into the Twin Towers and forever changed the course of history, the wasted complottismi about the attack and the figure of their creator, that' Osama Bin Laden leader of Al Qaeda in many remembered being a faithful friend of the Bush family. At a distance of 12 years in the name of the war on terror the U.S. and NATO invaded Afghanistan and Iraq, and without interference in the Arab world, increasing Western presence in these countries, see Pakistan where drone war tens of sowing deaths each year.

In May 2011 but Osama Bin Laden, at least that we were told, was killed during a raid near Islamabad, Pakistan, by a group of Navy Seal consists 25 unit. The soldiers entered the bunker man most feared and sought after in the world and killed him, though no one has ever been able to see even a proof of his death. In a mysterious way Obama did not want circulated images of the corpse of Bin Laden, the man against whom unleashed the largest global war on terror last century. After almost two years, the 25 marines responsible for the blitz, there are only two left alive. . Following the accident helicopter that killed 22, in August of the same year, in fact, another marine was killed during a training exercise. 

It was Brett D.Shadle, 31enne who was practicing in rolls at low altitude and crashed with his parachute in the Arizona desert. As if that was not enough Matt Bissonnette, one of the marines left alive who took part in the raid, has written a book "No Easy Day", published under the pseudonym of Mark Owen then this book has become the basis of the filmZero dark thirty.Bissonette was threatened with death, and did not request permission to distribute news to his superiors, wasdishonorably discharged.What lies behind the actual death of Bin Laden? And above all, the deaths of 22 marines are just a mere coincidence?

Corriere.com

Italia ingovernabile, boom di Grillo

Il Senato resta senza maggioranza, la Camera al centrosinistra
Il leader del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo
ROMA – Boom di Grillo, rimonta di Berlusconi, centrosinistra avanti nelle percentuali e con in mano la golden share del premio di maggioranza a Montecitorio, anche se al fotofinish: molti si dicono vincitori di queste elezioni ma il primo partito è quasi ovunque il Movimento Cinque Stelle che ha terremotato il quadro politico. E il dato centrale è che nessuna coalizione ha al Senato i numeri per governare da sola. Pier Luigi Bersani dopo una intera giornata di silenzio interviene e avverte: «gestiremo il risultato nell’interesse dell’Italia». Il segretario del Pd mette quindi un paletto sul ruolo dei democrats detentori, insieme a Sel, della maggioranza assoluta a Montecitorio. Un concetto ripreso, sia pure con diverse sfumature, dal partito di Nichi Vendola che, insieme al Pd, fa una netta apertura a Beppe Grillo, portando ad ipotizzare scenari di governo totalmente inediti.
Il centrosinistra, quando è stato scrutinato l’80 per cento delle schede per il Senato e il 60 per cento della Camera, è avanti a Montecitorio, dove seppure con un piccolo margine di distacco percentuale dal Pdl-Lega, avrebbe la maggioranza netta dei deputati per effetto del premio; ma al Senato la coalizione di Bersani non ce la fa, per effetto della sconfitta nelle regioni chiave.
Nessuno (né Berlusconi, né Bersani, né Grillo) arriva alla soglia dei 158 seggi di Palazzo Madama. Con questi risultati la Camera Alta è praticamente bloccata; e l’incertezza sul futuro politico rimbalza subito sui mercati, dove lo spread tra i titoli italiani e i bund tedeschi si impenna fino a quota 293. Il risultato più eclatante è certamente quello di Beppe Grillo. Gli elettori hanno premiato il movimento cinque stelle che registra un boom che va oltre ogni aspettativa. L’M5S è primo alla Camera ballando attorno al 25% con un infinitesimale vantaggio rispetto al Pd (dati ancora parziali del Viminale). Il centrosinistra arriverà al premio di maggioranza alla Camera solo grazie all’alleanza con Vendola, che gli porta un altro 3,2 e ritorna in parlamento dopo l’assenza di una legislatura. Sia il Pd che Sel cominciano a mettere i loro paletti avvertendo che la prima mossa deve spettare a chi ottiene il premio di maggioranza alla Camera. Berlusconi, va detto, è autore di una netta rimonta; partito da sondaggi che due mesi fa assegnavano al Pdl percentuali inferiori al 20%, grazie alla campagna elettorale giocata su temi caldi come la restituzione dell’Imu, al Senato è sopra il 21 e con la Lega e gli altri alleati si avvicina al 30% strappando al Pd i premi di maggioranza in Lombardia, Campania e Sicilia e Veneto, impedendo così a Bersani di vincere a Palazzo Madama. Il suo alleato leghista sconta l’attivismo del Cav fermandosi sotto il 4 per cento. Le urne hanno un sapore amaro per Mario Monti, che non raggiunge il 10 per cento alla Camera: i suoi alleati centristi Udc e Fli escono con le ossa rotte dalla prova elettorale. Fini resterà fuori dal Parlamento mentre Casini, che ammette la sconfitta, dovrebbe invece farcela al Senato. Con questo risultato (appena migliore al Senato) il progetto centrista non può nemmeno giocare il ruolo di ago della bilancia: i voti del professore non danno la maggioranza né al centrosinistra né al centrodestra.
Fallimentare l’esperimento di Rivoluzione Civile: la lista messa insieme da Antonio Ingroia non raggiunge il quorum, e l’insuccesso trascina fuori dal Parlamento anche Antonio Di Pietro. Con questi risultati l’incertezza sul nuovo governo è totale. Dal Pd, dopo la doccia fredda che ha gelato le speranze di Bersani alimentate dai primi instant poll, sono immediatamente arrivate una serie di precisazioni per escludere la possibilità delle larghe intese e di “inciuci” con il Pdl. Per Stefano Fassina l’unica strada da percorrere è quella che porta a nuove elezioni dopo l’approvazione di una nuova legge elettorale. Enrico Letta in un primo momento si era pronunciato per il ritorno alle urne, poi si è corretto.
Ma nel Pd c’è anche chi pensa che sarebbe il caso di avviare un dialogo con il Movimento cinque stelle.
Nel Partito democratico sotto choc per una vittoria sfuggita sul filo di lana, tace Matteo Renzi, lo sfidante di Bersani alle primarie: sono in molti a pensare che con lui alla guida del centrosinistra il risultato sarebbe stato diverso e il Pd avrebbe vinto largamente. Il Pdl non sembra disposto ad avallare la richiesta di nuove elezioni : un’idea «irresponsabile» sostiene il Fabrizio Cicchitto. Angelino Alfano rinvia il momento delle proposte a dopo lo spoglio completo della Camera e intanto parla del «risultato straordinario» ottenuto da Berlusconi contro tutte le aspettative. A ridersela sotto i baffi è Beppe Grillo.
Il leader delle Cinque stelle, che ha spettato i risultati elettorali nel suo orto, si gode il successo e festeggia l’exploit con un tweet: “L’onestà andrà di moda”. Niente altro. Tutti gli occhi sono puntati sulle decine di suoi deputati che sbarcheranno a Montecitorio, per capire come si muoveranno. Rabbiosa, invece, l’amarezza di Ingroia che ha accusato Bersani di aver “consegnato il paese alla destra” rifiutando ogni accordo con Rivoluzione Civile.

10,6'', el mejor relato del gol de todos los tiempos


Hernán Casciari escribió en la última revista Orsai un texto imperdible 

30 de Enero de 2013 - 09:14

En la última edición de la revista Orsai, su director Hernán Casciari escribió un relato imperdible del gol más emblemático de Diego Maradona y del fúbol argentino. 
Además de publicarlo en su blog, Hernán nos autorizó a publicarlo en canchallena, así que aquí está para que disfruten nuestros lectores. 

10.6 SEGUNDOS 

Menos de once segundos antes, cuando el jugador argentino recibe el pase de un compañero, el reloj en México marca las trece horas, doce minutos y veinte segundos. En la escena central hay también dos británicos y un hombre algo mayor, de origen tunecino. El deporte al que juegan, el fútbol, no es muy popular en Túnez. Por eso el africano parece el único que no está en actitud de alarma atlética. 
Se llama Alí Bin Nasser y, mientras los otros corren, él camina despacio. Tiene cuarenta y dos años y está avergonzado: sabe que nunca más será llamado a arbitrar un partido oficial entre naciones. 
También sabe que si, doce años antes, cuando se lesionó en la liga tunecina, le hubieran dicho que estaría en un Mundial, no lo habría creído. Tampoco la tarde en que se convirtió en juez: en Túnez no es necesario, para acceder al puesto, más que tener el mismo número de piernas que de pulmones. 
Cuando dirigió su primer partido descubrió que sería un árbitro correcto. Fue más que eso: logró ser el primer juez de fútbol al que reconocían por las calles de la ciudad. Lo convocaron para las eliminatorias africanas de 1984 y su juicio resultó tan eficaz que, un año más tarde, fue llamado a dirigir un Mundial. 
En México le pedían autógrafos, se sacaban fotos con él y dormía en el hotel más lujoso. Había arbitrado con éxito el Polonia-Portugal de la primera fase, y vigilado la línea izquierda en un Dinamarca-España en donde los daneses jugaron todo el segundo tiempo al achique; él no se equivocó ni una sola vez al levantar el banderín. 
Cuando los organizadores le informaron que dirigiría un choque de cuartos -nunca un juez tunecino había llegado tan lejos-, Alí llamó a su casa desde el hotel, con cobro revertido, se lo contó a su padre y los dos lloraron. 
Esa noche durmió con sofocones y soñó dos veces con el ridículo. En el primer sueño se torcía el tobillo y tenía que ser sustituido por el cuarto árbitro; en el sueño, el cuarto árbitro era su madre. En el segundo sueño saltaba al campo un espontáneo, le bajaba los pantalones y él quedaba con los genitales al aire frente a las televisiones del mundo. 
De cada sueño se despertó con palpitaciones. Pero no soñó nunca, durante la víspera, en dar por válido un gol hecho con la mano. No soñó con que, en la jerga callejera de Túnez, su apellido se convertiría en metáfora jocosa de la ceguera. Por eso ahora dirige el segundo tiempo de ese partido con ganas de que todo acabe pronto. 
* * *
Ahora el jugador argentino toca el balón con su pie izquierdo y lo aleja medio metro de la sombra. El calor supera los treinta grados y esa sombra, con forma de araña, es la única en muchos metros a la redonda. 
Alrededor del campo, acaloradas, ciento quince mil personas siguen los movimientos del jugador pero solo dos, los más cercanos a la escena, pueden impedir el avance. 
Se llaman Peter: Raid uno, Beardsley el otro; nacieron en el norte de Inglaterra, uno en el cauce y el otro en la desembocadura del río Tyne; los dos tuvieron, pocos años antes, un hijo varón al que llamaron Peter; los dos se divorciaron de su primera mujer antes de viajar a México; y los dos están convencidos, a las trece horas, doce minutos y veintiún segundos, que será fácil quitarle el balón al jugador argentino porque lo ha recibido a contrarié y ellos son dos: uno por el frente y el otro por la espalda. 
No saben que, una década después, Peter Raid hijo y Peter Beardsley hijo serán amigos, tendrán quince y dieciséis años y estarán bailando en una rave de Londres. 
Un escocés de apellido O'Connor -que más tarde será guionista del cómico Sacha Baron Cohen- los reconocerá y, en medio de la danza, los esquivará con una finta y un regate. Lo hará una vez, dos veces, tres veces, imitando el pase de baile que ahora, diez años antes, le practica a sus padres el jugador argentino. 
Raid hijo y Beardsley hijo no entenderán la broma, entonces otros participantes de la rave se sumarán a la burla de O'Connor y se formará un bucle de bailarines que, en forma de tren humano, esquivará a los muchachos en dos tiempos. 
Peter Raid hijo será el primero en comprender la mofa, y se lo dirá a su amigo: «Es por el video de nuestros padres, el de México ochenta y seis». 
Peter Beardsley hijo hará un gesto de humillación y los dos amigos escaparán de la fiesta perseguidos por decenas de muchachos que gritarán, a coro, el apellido del jugador que diez años antes, ahora mismo, se escapa de sus padres con un quiebre de cintura. 
Muy pronto Raid padre y Beardsley padre dejarán de perseguir al jugador: será el trabajo de otros compañeros intentar detenerlo. Ellos ahora permanecen congelados en medio de una cinta que el tiempo convierte, a cámara lenta, de VHS a Youtube. 
Ahora sus hijos tienen cinco y seis años y no recordarán haber visto en directo el primer regate del jugador, pero al comienzo de la adolescencia lo verán mil veces en video y dejarán de sentir respeto por sus padres. 
Peter Raid y Peter Beardsley, inmóviles aún en el centro del campo, todavía no saben exactamente qué ha pasado en sus vidas para que todo se quiebre. 
* * *
Raudo y con pasos cortos, el jugador argentino traslada la escena al terreno contrario. Solo ha tocado el balón tres veces en su propio campo: una para recibirlo y burlar al primer Peter, la segunda para pisarlo con suavidad y desacomodar al segundo Peter, y una tercera para alejar el balón hacia la línea divisoria. 
Cuando la pelota cruza la línea de cal el jugador ha recorrido diez de los cincuenta y dos metros que recorrerá y ha dado once de los cuarenta y cuatro pasos que tendrá que dar. 
A las las trece horas, doce minutos y veintitrés segundos del mediodía un rumor de asombro baja desde las gradas y las nalgas de los locutores de las radios se despegan de los asientos en las cabinas de transmisión: el hueco libre que acaba de encontrar el jugador por la banda derecha, después del regate doble y la zancada, hace que todo el mundo comprenda el peligro. 
Todos menos Kenny Sansom, que aparece por detrás de los dos Peter y persigue al jugador con una parsimonia que parece de otro deporte. Sansom acompaña al jugador argentino sin desespero, como si llevara a un hijo pequeño a dar su primera vuelta en bicicleta. 
«Parecía que estuvieras en un entrenamiento, joder», le dirá el entrenador Bobby Robson dos horas después, en los vestuarios. «Ese no eras tú», le dirá su medio hermano Allan un año más tarde, borrachos los dos, en un pub de Dublin. 
Kenny Sansom rebobinará mil veces el video en el futuro. Verá su paso desganado, casi un trote, mientras el jugador se le escapa. 
Comenzará, en noviembre de ese año, a tener problemas con el juego y el alcohol. En la prensa sensacionalista lo apodarán «White» Sansom, por su afición al vino blanco. 
Su único amigo de las épocas doradas será Terry Butcher, quizá porque ambos compartirán el eje de un trauma idéntico. 
Butcher es el que ahora, cuando los relatores de radio y los espectadores en las gradas todavía están poniéndose de pie, le tira una patada fallida al jugador que avanza por su banda. Sin saber que su apellido, en el idioma del rival, significa carnicero, Butcher perseguirá enloquecido al jugador y le tirará una segunda patada, esta vez con ánimo mortal, en el vértice del área pequeña. 
Terry Butcher tampoco superará nunca el fantasma de esos diez segundos en el mediodía mexicano. «Al resto de mis compañeros los regateó una sola vez, pero a mí dos..., pequeño bastardo», le dirá a la prensa muchos años después, con los ojos vidriosos. 
Kenny Sansom y Terry Butcher no regresarán a México jamás, ni siquiera a playas turísticas alejadas del Distrito Federal. En el futuro, sin hijos ni parejas estables, tendrán por afición (con casi sesenta años cada uno) juntarse a tomar whisky los jueves por la noche e inventar nuevos insultos contra el jugador argentino que ahora, sin marca, entra al área grande con el balón pegado a los pies. 
* * *
Antes del inicio de la jugada, un hombre da un mal pase. Con ese error empieza la historia. Podría haber jugado hacia atrás o a su derecha, pero decide entregar el balón al jugador menos libre. 
Ese hombre se llama Héctor Enrique y se queda inmóvil después del pase, con las manos en la cintura. Después de ese partido nunca podrá separarse del jugador, como si el hilo invisible del pase vertical se transformara, con el tiempo, en un campo magnético. 
Enrique todavía no lo sabe, pero volverá a participar de un Mundial de fútbol, veinticuatro años después y en tierra sudafricana. Será parte del cuerpo técnico de un entrenador que, más gordo y más viejo, tendrá el mismo rostro del hombre joven que ahora corre en zigzag. Y acabará su carrera todavía más lejos, en los Emiratos Árabes, de nuevo a la derecha del jugador al que, hace dos segundos, le ha dado un pase a contrarié. 
Durante muchas noches del futuro, en un país extraño donde las mujeres tienen que ir en el asiento trasero de los coches, Enrique pensará qué habría ocurrido si, en lugar de esa mala entrega, le hubiera cedido el balón a Jorge Burruchaga, su segunda opción. 
Burruchaga es el que ahora corre en paralelo al jugador, por el centro del campo. Son las trece horas, doce minutos y veinticuatro segundos: está convencido de que el jugador le dará el pase antes de entrar al área, que únicamente le está quitando las marcas para dejarlo solo frente a los tres palos. 
Burruchaga corre y mira al jugador; con el gesto corporal le dice «estoy libre por el medio» y mientras espera el pase en vano no sabe que un día, algunos años después, aceptará un soborno en la liga francesa y será castigado por la Federación Internacional. Otra entrega a destiempo. Pero él, congelado en el presente, todavía corre y espera la cesión que no llega nunca. 
Días más tarde hará el gol decisivo de la final, pero el mundo solo tendrá ojos y memoria para otro gol. Año tras año, homenaje tras homenaje, el suyo no será el más admirado. 
Una noche Burruchaga llamará por teléfono a Arabia Saudita para conversar con su amigo Héctor Enrique, y lamentará, un poco en broma, un poco en serio, aquel gol ajeno que opacó el decisivo de la final. Entonces Enrique verá por la ventana una tormenta de arena y, sin pretenderlo, lo hará sonreír. «No fue para tanto aquel gol», le dirá, «el pase se lo di yo, si no lo hacía era para matarlo». 
* * *
Dentro del campo de juego el viento sopla a doce kilómetros por hora. Si hubiera soplado a sesenta kilómetros por hora, como ocurrió en la Ciudad de México seis días más tarde, quizás la jugada no hubiera acabado bien. 
El avance parece veloz por ilusión óptica, pero el jugador regula el ritmo, frena y engaña. Hay una geometría secreta en la precisión de ese zigzag, un rigor que se hubiera roto con un cambio en el viento o con el reflejo de un reloj pulsera desde las gradas. 
Terry Fenwick piensa en las variables del azar mientras se ducha cabizbajo tras la derrota. Sobre todo en una, la menos descabellada. 
Antes del partido, Fenwick le aconsejó a su entrenador Bobby Robson que lo mejor sería hacerle, al jugador rival, un marcaje hombre a hombre. Bobby respondió que que la marca sería zonal, como en los anteriores partidos. 
¿Qué habría ocurrido si Robson le hacía caso?, se preguntará Terry Fenwick desnudo, en la soledad del vestuario, con el agua reventándole las sienes. 
En este momento, a las trece horas, doce minutos y veintiséis segundos del mediodía, es él quien ve llegar al jugador con el balón dominado; es él quien cree que dará un pase al centro del área. Fenwick piensa igual que Burruchaga, apoya todo el cuerpo en su pierna derecha para evitar el pase y deja sin candado el flanco izquierdo. El jugador, con un pequeño salto, entra entonces por el hueco libre, pisa el área y encuentra los tres palos. 
«Mierda», le dirá a la prensa Terry Fenwick en 1989, «arruinó mi carrera en cuatro segundos». Dos años después de exabrupto, en 1991, Fenwick pasará cuatro meses en prisión por conducir borracho. Dirá, a mediados de la década siguiente, que no le daría la mano al jugador argentino si lo volviera a ver. 
En esas mismas fechas una de sus hijas cumplirá dieciocho años. Durante la fiesta, Terry Fenwick la encontrará besándose con un argentino en una playa de Trinidad. Reconocerá la identidad del muchacho por una camiseta celeste y blanca con el número diez en la espalda. Fenwick aún no lo sabe, pero en su vejez dirigirá un ignoto equipo llamado «San Juan Jabloteh» en Trinidad y Tobago, un país que nunca jugó un Mundial, pero que tiene playas. 
Fenwick se emborrachará cada día en la arena de esas playas. La tarde del encuentro de su hija con el argentino querrá acercarse al chico para golpearlo. El argentino hará el gesto salir para la izquierda y escapará por la derecha. Fenwick, de nuevo, se comerá el amague. 
* * *
Ocho pasos, de cuarenta y cuatro totales, dará el jugador dentro del área, y le bastarán para entender que el panorama no es favorable. 
Hay un rival soplándole la nuca a su derecha, Terry Butcher; otro a su izquierda, Glenn Hoddle, le impide la cesión a Burruchaga; Fenwick se ha repuesto del amague y ahora cubre el posible pase atrás y, por delante, el portero Peter Shilton le cierra el primer palo. 
El norte, el sur y el este están vedados para cualquier maniobra. Son las trece horas, doce minutos y veintisiete segundos del mediodía. Tres horas más en Buenos Aires. Seis horas más en Londres. 
En cualquier ciudad del mundo, a cualquier hora del día o de la noche, intentar el disparo a puerta en medio de ese revoltijo de piernas es imposible, y el que mejor lo sabe es Jorge Valdano, que llega solo, muy solo, por la izquierda. 
Nadie se percata de la existencia de Valdano, ni ahora en el área grande ni durante la escuela primaria, en el pueblo santafecino de Las Parejas. 
Jorge Valdano se sentaba a leer novelas de Emilio Salgari mientras sus compañeros jugaban al fútbol en los recreos, arremolinados detrás de la pelota. El fútbol le parecía un juego básico a los nueve años, pero a los once ocurrió algo: entendió las reglas y supo, sin sorpresa, que los demás chicos no lo practicaban con inteligencia. 
Empezó a jugar con ellos y, mientras el resto perseguía el balón sin estrategia, él se movía por los laterales buscando la geometría del deporte. 
Y fue bueno. Integró dos clubes del pueblo y pronto lo llamaron de Rosario para las inferiores de Newell's; debutó en primera antes de los dieciocho. A los veinte era campeón mundial juvenil en Toulon. A los veintidós ya había jugado en la selección absoluta. 
Pero en esos años de vértigo nunca amó el juego por encima de todo. Si le daban a elegir entre un partido entre amigos o una buena novela, siempre elegía el libro. 
Hasta ese momento de sus treinta años, Valdano no estaba seguro de haber elegido su verdadera vocación. Por eso ahora, que espera el pase, siente por fin que ese puede ser su destino, que quizá ha venido al mundo a tocar ese balón y colgarlo en la red. 
Sabe que la única opción del jugador es el pase a la izquierda. No le queda otra salida. Mientras pisa el área piensa: «Si no me la da, largo todo y me hago escritor". 
Pero el jugador entra al área sin mirarlo. Tampoco Butcher, ni Fenwick, ni Hoddle, ni Shilton se enteran de su presencia. Ni siquiera el camarógrafo, que sigue la jugada en plano corto, lo distingue a tiempo. 
En el video, Valdano es un fantasma que asoma el cuerpo completo recién cuando el balón está en el vértice del área pequeña. Jorge Valdano todavía no lo sabe, pero al final de ese torneo comenzará a escribir cuentos cortos. 
* * *
No hay enemigo mayor para un atacante que el portero. El resto de los rivales puede usar la zancadilla rastrera o las rodillas para el golpe en el muslo. No importa, son armas lícitas en un deporte de hombres y el agredido puede devolver la acción en la siguiente jugada. 
Pero el portero, el guardavallas, el goalkeeper, el arquero (como el de Lucifer, sus nombres son infinitos) puede tocar el balón con las manos. 
El portero es una anomalía, una excepción capaz de deshacer con las manos las mejores acrobacias que otros hombres hacen con los pies. Y hasta ese día ningún futbolista de campo había logrado devolver esa afrenta en un Mundial. 
Por eso ahora, cuando el jugador pisa el área y mira a los ojos al portero Peter Shilton (camisa gris, guantes blancos), entiende el odio en la mirada del inglés. 
Media hora antes el argentino había vengado a todos los atacantes de la historia del fútbol: había convertido un gol con la mano. La palma del atacante había llegado antes que el puño del guardameta. En el reglamento del fútbol esa acción está vedada, pero en las reglas de otro juego, más inhumano que el fútbol, se había hecho justicia. 
Por eso en este momento culminante de la historia, a las trece horas, doce minutos y veintinueve segundos, Peter Shilton sabe que puede vengar la venganza. Sabe muy bien que está en sus manos desbaratar el mejor gol de todos los tiempos. Necesita hacerlo, además, para volver a su país como un héroe. 
Shilton había nacido en Leicester, treinta y seis años antes de aquel mediodía mexicano. Ya era una leyenda viva, no le hacía falta llegar a su primer y tardío Mundial para demostrarlo. 
Aún no lo sabe, pero jugará como profesional hasta los cuarenta y ocho años. Protagonizará en el futuro muchas paradas inolvidables que, sumadas a las del pasado, lo convertirán en el mejor goalkeeper inglés. 
Sin embargo (y esto tampoco lo sabe) en el futuro existirá una enciclopedia, más famosa que la Britannica, que dirá sobre él: 
«Shilton, Peter: guardameta ingles que recibió, el mismo día, los goles conocidos como 'la mano de Dios' y el 'del Siglo'». 
Ese será su karma y es mejor que no lo sepa, porque todavía sigue mirando a los ojos al jugador argentino que se acerca, y tapa su palo izquierdo como le enseñaron sus maestros. 
Cree que Terry Butcher puede llegar a tiempo con la patada final. «Quizá sea córner», piensa. «Quizá pueda sacar el balón con la yema de los dedos». 
Tampoco sabe que dos años más tarde se publicará en Gran Bretaña un videojuego con su nombre, titulado «Peter Shilton's Handball», ni que sus hijos lo jugarán, a escondidas, en las vacaciones de 1992. 
Mejor que no conozca el futuro ahora, porque debe decidir, ya mismo, cuál será el siguiente movimiento del jugador. Y lo decide: Shilton se juega a la izquierda, se tira al suelo y espera el zurdazo cruzado. El argentino, que sí conoce el futuro, elige seguir por la derecha. 
* * *
Antes de tocar por última vez el balón con su pie izquierdo, a las trece horas, doce minutos y treinta segundos del mediodía mexicano, el jugador argentino ve que ha dejado atrás a Peter Shilton; ve que Jorge Valdano arrastra la marca de Terry Fenwick; ve que Peter Raid, Peter Beardsley y Glenn Hoddle han quedado en el camino; ve a Terry Butcher que se arroja a sus pies con los botines de punta; ve a Jorge Burruchaga que frena su carrera con resignación; ve a Héctor Enrique, todavía clavado en la mitad del campo, que cierra el puño de la mano derecha; ve a su entrenador que salta del banquillo como expulsado por un resorte y al otro entrenador, el rival, que baja la mirada para no ver el final del avance; ve a un hombre pelirrojo con una pipa humeante en la primera bandeja de las gradas; ve la línea de cal de la portería contraria y recuerda el rostro del empleado que, durante el entretiempo, la repasó con un rodillo; ve nítidamente a su hermano el Turco que, con siete años, le echa en cara un error que cometió en Wembley en un jugada parecida, ve los labios sucios de dulce de leche de su hermano cuando dice: 
«La próxima vez no le pegues cruzado, boludito, mejor amagále al arquero y seguí por la derecha». 
Ve el rostro de su hermano con la luz de la cocina donde ocurrió la escena, ve la picardía con que lo miraba; ve, detrás del arco, un cartel que dice Seiko en letras blancas sobre fondo rojo; ve las uñas pintadas de verde de su primera novia, el día que la conoció, y ve a esa misma chica, ya mujer, amamantando a una niña; ve una pelota desinflada y se ve a él mismo, con nueve años, que intenta dominarla; ve a su madre y a su padre que arrastran, con esfuerzo, un enorme bidón de kerosén por una calle de tierra en la que ha llovido; ve una taquilla, en un vestuario de La Paternal, que lleva su nombre y su apellido en letras flamantes, ve su orgullo adolescente al leer por primera vez su nombre y su apellido en la taquilla; ve un estadio, sus tablones de madera, y ve también que un día el estadio entero, y no solo la taquilla, llevará su nombre. 
El jugador argentino ha controlado el aire de sus pulmones durante nueve segundos, y ahora está a punto de soltar todo el aire de un soplido. 
Al revés que todos los rivales y compañeros que ha dejado atrás, él puede respirar con su pierna izquierda, y también puede intuir el futuro mientras avanza con el balón en los pies. 
Ve, antes de tiempo, que Shilton se arrojará a la derecha; ve la intención segadora de Terry Butcher a sus espaldas, se ve a él mismo, muchos años más tarde, con un nieto en los brazos, visitando la entrada del Estadio Azteca donde se levanta una estatua de bronce sin nombre: solo un jugador joven con el pecho inflado, un balón en los pies y una fecha grabada en la base: 22 de junio de 1986; ve una rave en Londres donde dos chicos de quince años escapan de una multitud que se burla; ve un departamento en penumbras donde solo hay una mesa, dos amigos y un espejo sobre la mesa; ve a una muchacha en una playa del trópico que se deja besar por un chico que lleva puesta una camiseta argentina; ve un enjambre de periodistas y fotógrafos a la salida de todos los aeropuertos, de todas las terminales, de todos los estadios y de todos los centros comerciales del mundo; ve a un niño embobado con un videojuego en la ciudad de Leicester, mientras su hermano vigila por la ventana que no aparezca el padre; ve el cadáver de un hombre viejo que ha muerto en Ginebra ocho días antes de ese mediodía, un hombre que también ha visto todas las cosas del mundo en un único instante. 
Ve Fiorito de día; ve Nápoles de tarde; ve Barcelona de noche. 
Ve el estadio de Boca a reventar y él está en el medio del campo pero no lleva un balón en los pies, sino un micrófono en la mano; ve a un anciano en el aeropuerto de Cartago, que espera a su hijo en el último vuelo desde México, para abrazarlo y consolarlo; ve un tobillo inflamado; ve a una enfermera de la Cruz Roja, regordeta y sonriente; ve todos los goles que ha hecho y los que hará; ve todos los goles que ha gritado y los que gritará en su vida entera; se ve, con cincuenta y tres años, mirando desde el palco la final del mundo en el estadio Maracaná; ve el día que verá a su madre por última vez; ve la noche en que verá por última vez a su padre; ve crecer a todos los hijos de sus hijos; ve los dolores de parto de una mujer que está a punto de parir un niño zurdo en Rosario, un año y dos días más tarde de ese mediodía mexicano; ve un espacio mínimo, imposible, entre el poste derecho y el botín de Terry Butcher. 
Cierra los ojos. Se deja caer hacia adelante, con el cuerpo inclinado, y se hace silencio en todo el mundo. 
El jugador sabe que ha dado cuarenta y cuatro pasos y doce toques, todos con la zurda. Sabe que la jugada durará diez segundos y seis décimas. Entonces piensa que ya es hora de explicarle a todos quién es él, quién ha sido y quién será hasta el final de los tiempos. 
* El texto fue extraído de la edición número 11 de la Revista Orsai

El ministro de Turismo de Ecuador anima a los españoles a trabajar en aquel país

El ministro de Turismo de Ecuador, Freddy Ehlers (d), a su llegada a un acto con la comunidad ecuatoriana celebrado en la sede de la Secretaría Nacional del Migrante en Murcia. EFEEl ministro de Turismo de Ecuador, Freddy Ehlers. EFE

Murcia (España), 27 ene (EFE).- El ministro ecuatoriano de Turismo, Freddy Ehlers, animó hoy a los desempleados españoles a que en estos tiempos de crisis en España busquen trabajo en Ecuador, sobre todo en los sectores de educación, medicina y turismo.
Tras un acto con la comunidad ecuatoriana celebrado en la sede de la Secretaría Nacional del Migrante en Murcia (sureste de España), Ehlers hizo declaraciones a los periodistas, a los que explicó que en estos momentos Ecuador necesita médicos "altamente cualificados" para sus hospitales públicos, así como maestros y profesores para escuelas, institutos de secundaria y universidades.
"Si hay españoles que deciden emigrar para trabajar allá, los acogeremos tan bien como acá han recibido a los ecuatorianos", declaró.
Con motivo de su visita oficial a España, durante la que participará en la Feria Internacional de Turismo (Fitur), que se celebrará la semana próxima en Madrid, el ministro ecuatoriano animó también a las empresas españolas del sector turístico a invertir en Ecuador de forma "responsable y respetuosa con la naturaleza".
En Ecuador "hay grandes oportunidades con la mejora de las comunicaciones por carretera y un incremento del número de turistas del 11,5 por ciento en 2012", dijo.
El que fue candidato a las elecciones presidenciales ecuatorianas en 1996 y 1998 señaló que, aunque no dispone de cifras oficiales, estima que unos 54.000 ecuatorianos que vivían en España regresaron en 2012 a su país, alentados por los programas del Gobierno español y ayudas específicas para los colectivos profesionales docente, científico, sanitario y agrícola.
Ehlers se ha referido también a la demanda del Defensor del Pueblo de Ecuador, Ramiro Rivadeneira, ante el Tribunal Europeo de Derechos Humanos de Estrasburgo (Francia) por los desahucios de viviendas en España por impago de préstamos hipotecarios.
La demanda no sólo se refiere a los ciudadanos ecuatorianos, sino a los de cualquier persona, pues "las leyes tienen que proteger a los seres humanos del mundo, no al capital", dijo el ministros ecuatoriano.
Por otro lado, anunció una próxima iniciativa conjunta de Ecuador con Cuba, Colombia y Perú para proponer a los turistas del mundo una ruta por ciudades de esos países declaradas por la Unesco patrimonio de la humanidad, como Quito, La Habana, Cartagena de Indias y Cuzco.
Para perfilar detalles sobre esta propuesta y otras temas de turismo en América Latina, los presidentes de los países agrupados en la Unión de Naciones Suramericanas decidieron hace dos meses celebrar una reunión de ministros de Turismo en Quito, en marzo próximo.
"Ahora bien, los únicos que no van a poder trabajar en el Ecuador son los toreros y los crupieres", bromeó Ehlers al referirse a la prohibición en su país de las corridas de toros y de las máquinas tragaperras o "traganíqueles".
El ministro visitó hoy la ciudad de Lorca, en la comunidad autónoma de Murcia y donde hay una importante colonia ecuatoriana. Mañana viajará a Valencia (este).
El ministro de Turismo de Ecuador, Freddy Ehlers (d), a su llegada a un acto con la comunidad ecuatoriana celebrado en la sede de la Secretaría Nacional del Migrante en Murcia. EFE
El ministro de Turismo de Ecuador, Freddy Ehlers. EFE